# 73- gli amici senza soldi- advanced
Benvenuto o benvenuta su Italiando Storie, il podcast di storytelling in lingua italiana per arricchire il tuo italiano e la tua mente.
Sono Silvia e sono qui per raccontarvi delle storie attraverso le quali far crescere il vostro italiano. Qui si parla di tutto: di racconti, di storie personali, di cultura e molto altro. Trovate la trascrizione di questo episodio al sito www.italiandolearnitalianwithsilvia.com.
E se volete davvero far fare un salto di qualità al vostro italiano, sulla pagina Patreon trovate molti contenuti extra✨: approfondimenti ed esercizi pratici per ogni episodio a partire dal numero 26… e oggi siamo già al numero 73! (Quindi, c’è da fare!)
Dato che l’episodio numero 69 ‘Sette piani’ destinato principalmente agli studenti di livello avanzato è stato apprezzato, eccovene un altro.
Se siete studenti di un altro livello, nessun problema, restate con me! Potete comunque usare questo video come ascolto passivo mentre fate altro per abituarvi al ritmo della lingua e chissà, magari riuscirete comunque a seguire a grandi linee la storia.
Ecco cosa faremo oggi, come si struttura l’episodio di oggi:
Innanzitutto, farò una breve introduzione all’autore. Sì, la storia che racconto oggi non è scritta da me ma da un famoso scrittore italiano.
Poi leggerò il racconto, tutto di fila, senza interruzioni (ci vorranno massimo venti minuti )
Dopo vi spiegherò in parole più semplici che cosa succede nella storia per essere sicuri che abbiate capito cosa succede
E infine ci sarà un approfondimento su alcune parole ed espressioni usate nel testo. Quest’ultima parte sarà la parte più spontanea ed improvvisata.
Un’ultima cosa prima di cominciare, come vedete, niente sottotitoli oggi se non quelli automatici di Youtube. Dato che si tratta di un episodio dedicato agli studenti di livello avanzato, ho deciso di mettere davvero alla prova il vostro italiano.
Sarà un video piuttosto lungo, quindi...cominciamo subito!
📚 L’AUTORE e la RACCOLTA
L’autore del racconto di oggi è lo scrittore italiano Alberto Moravia.
Ne avete mai sentito parlare? Senza dubbio è stato uno degli scrittori italiani più importanti e originali del Novecento.
Il racconto di oggi si intitola “Gli amici senza soldi” e fa parte della raccolta “Racconti romani”. Potete quindi immaginare dove sono ambientati questi racconti. ‘Racconti romani’. Esatto, a Roma. Si tratta di racconti brevi ambientati nella Roma del secondo dopoguerra, quindi dopo la seconda guerra mondiale.
I racconti sono spesso narrati in prima persona, il pronome soggetto è ‘io’ e per questo motivo è facile immedesimarsi nei vari protagonisti ed entrare all’interno di ogni racconto.
I protagonisti delle storie appartengono a diverse classi sociali ma hanno in comune il fatto di vivere a modo loro tutti dei piccoli drammi quotidiani. Direi infatti che è una raccolta di racconti molto umana.
Per questo motivo, credo sia un ottimo libro di racconti per gli studenti di italiano come seconda lingua.
Ma adesso... entriamo nella storia.
La leggerò senza interruzioni. Pronti? Via!
GLI AMICI SENZA SOLDI
Se ne dicono tante sull'amicizia, ma, insomma, che vuol dire essere amico?
Basterà, come feci io, per cinque anni di seguito, vedere al bar di piazza Mastai sempre lo stesso gruppo, far la partita sempre con gli stessi giocatori, discutere di calcio sempre con gli stessi tifosi, andare insieme in gita, allo stadio, a fiume, mangiare e bere insieme alla stessa osteria?
Oppure bisognerà, d'ora in poi, dormire nello stesso letto, mangiare con lo stesso cucchiaio e soffiarsi il naso nello stesso fazzoletto?
Io, più ci penso a questa faccenda dell'amicizia, e più ci perdo la testa. Crediamo per anni e anni di essere intimi, pappa e ciccia come si dice, di volerci bene, di esser fratelli.
E poi, tutto a un tratto, scopriamo invece che gli altri avevano tenuto le debite distanze e ci criticavano e magari ci avevano sulle corna e, insomma, non provavano per noi non dico il sentimento dell'amicizia ma neppure quello della simpatia.
Ma allora, dico io, l'amicizia sarebbe un'abitudine come prendere il caffè o comprare il giornale; una comodità come la poltrona o il letto; un passatempo come il cinema e la foglietta?
Ma se è così perché la chiamiamo amicizia e non la chiamiamo piuttosto in un altro modo?
Basta, io sono un uomo tutto cuore, di quelli che non credono al male.
Così, quell'inverno, dopo aver avuto la polmonite, tra il medico che mi diceva che dovevo passare un mese al mare, e i soldi che non c'erano perché tutti i pochi risparmi se ne erano andati in medici e cure, dissi alla mamma che quelle trentamila lire che ci volevano me le sarei fatte prestare dagli amici del bar di piazza Mastai.
La mamma non è come me: tanto io sono entusiasta, credulo, avventato, altrettanto lei è scettica, amara, prudente.
Così, quel giorno, mi rispose, senza voltarsi dal fornello:
"Ma quali amici, se durante la malattia non è venuto a trovarti neppure un cane?"
Rimasi turbato dalla frase, perché era la verità ma subito mi riebbi spiegando che era tutta gente molto occupata.
Lei scosse la testa, ma non disse nulla.
Era la sera, l'ora in cui si riunivano tutti al bar. Mi coprii ben bene, perché era la prima volta che uscivo, e ci andai. Avvicinandomi al bar, con le gambe che non mi reggevano dalla gran debolezza, dico la verità, sorridevo mio malgrado e sentivo che quel sorriso mi illuminava come un raggio di sole la faccia smunta e sbiancata dalla malattia.
Sorridevo di allegria anticipata perché mi figuravo la scena: io che apparivo sulla soglia, loro che mi guardavano un momento e poi si alzavano tutti insieme e mi venivano incontro; e chi mi batteva una mano sulla spalla, chi mi chiedeva notizie della salute, chi mi raccontava quello che era successo in mia assenza.
Mi accorgevo, insomma, da quel sorriso, di voler bene agli amici; e quell'incontro mi faceva trepidare un po' come quando si rivede, dopo molto tempo, una donna amata. Provavo il sentimento dell'amicizia e, come succede, quel che provavo mi pareva che dovessero provarlo anche gli altri.
Come mi affacciai al bar vidi, invece, che era deserto. Non c'erano che il barista, Saverio, intento a pulire il banco e la vaporiera, e Mario, il padrone, che leggeva il giornale, seduto alla cassa. La radio aperta suonava in sordina un ballabile.
Con Mario, un giovanottone grande e moscio, con la testa piccola, e gli occhi di donna sempre pesti e languidi, eravamo, si può dire, fratelli. Eravamo cresciuti insieme nella stessa strada, eravamo andati a scuola insieme, eravamo stati sotto le armi insieme.
Felice, trepidante, mi avvicinai a lui che leggeva e dissi in un soffio, che, un po' per la debolezza e un po' per la gioia, quasi mi mancava la voce:
"Mario..."
"Oh, Gigi", fece lui alzando gli occhi, con voce normale, "chi non muore si rivede... che hai avuto?"
"La polmonite e sono stato tanto male... ho dovuto fare la penicillina... non ti dico quello che ho passato."
"Ma davvero?", disse lui ripiegando il giornale e guardandomi, "si vede... sei un po' sbattuto... ma ora sei guarito?"
"Sì, sono guarito... per modo di dire, però... non mi reggo in piedi... il dottore dice che dovrei andare per un mese almeno al mare..."
"Ha ragione... sono malattie pericolose... prendi un caffè?"
"Grazie... e gli amici?"
"Saverio, un caffè forte per Gigi... Gli amici? Sono usciti proprio ora per andare al cinema."
Adesso aveva aperto di nuovo il giornale, come desideroso di riprendere la lettura.
Dissi: "Mario..."
"Che c'è?"
"Guarda, dovresti farmi un favore... per passare un mese al mare ci vogliono quattrini... io non li ho... potresti prestarmi diecimila lire? Appena ricomincerò con le mediazioni, te le renderò."
Lui mi guardò con quei suoi occhi neri e languidi, un lungo momento. Poi disse: "Vediamo", e aprì il cassettino della macchina contabile.
"Guarda", disse poi mostrandomi il cassetto quasi vuoto, "proprio non li ho... ho fatto un pagamento poco fa... mi dispiace."
"Come non li hai?" dissi sperduto, "diecimila lire non sono molte..."
"Anzi, sono poche", disse lui, "ma avercele."
Come per una improvvisa ispirazione, levò gli occhi verso il banco e gridò: "Saverio, ci avresti diecimila lire da prestare a Gigi?"
Il barista, un poveruomo con famiglia, naturalmente rispose. "Signor Mario... io, diecimila lire?"
Allora Mario si voltò verso di me e disse: "Sai chi può prestartele? Egisto... lui ci ha il negozio che gli rende... lui te le presta di certo."
Non dissi nulla: ero gelato. Ma, per la forma, bevvi il caffè e poi volli pagarlo io. Lui capì e disse: "Mi rincresce, sai..."
"Figurati", risposi, e uscii.
Egisto era un altro di questi cari amici che avevo veduto tutti i giorni per anni. Il mattino dopo, presto, uscii di casa e andai da Egisto. Aveva un negozio di mobili usati dietro piazza Navona, in via di Parione.
Come giunsi davanti al negozio, lo vidi subito attraverso i vetri della porta, ritto in piedi tra cataste di seggiole e di panchetti, sullo sfondo di un comò, in cappotto, con il bavero rialzato sulla nuca e le mani in tasca.
Egisto era un tipo proprio comune: né alto né basso, né magro né grasso, con una faccia prudente e infastidita. Aveva sempre ora un occhio ora l'altro, rosso e mezzo chiuso, per qualche orzarolo; e si mangiava le unghie, a fondo, fino alla carne.
Sebbene mi sentissi già meno entusiasta, pure quando chiamai "Egisto" c'era ancora un fremito di gioia nella mia voce.
Lui disse: "Ciao Gigi", freddamente; ma non ci feci caso perché sapevo che aveva un carattere freddo.
Entrai e dissi francamente: "Egisto, sono venuto per chiederti un favore."
Lui rispose: "Intanto chiudi la porta perché fa freddo."
Chiusi la porta e ripetei la frase. Lui andò in fondo al negozio, in un angolo buio dove c'era una vecchia scrivania e una seggiola e sedette dicendo:
"Ma tu sei stato male... raccontami un po'... che hai avuto?"
Capii dal tono che voleva parlare della malattia per evitare il discorso sul favore che stavo per chiedergli. Tagliai corto rispondendo seccamente:
"Ho avuto la polmonite."
"Ma davvero?... E lo dici così? Racconta un po'..."
"Non è di questo che volevo parlarti", dissi; "il favore piuttosto... avrei bisogno urgente di quindicimila lire... prestamele: tra un mese te le restituisco."
Avevo aumentato la somma perché, venuto meno Mario, ormai erano in due soltanto che potevano prestarmele. Lui prese subito a rosicchiarsi l'unghia dell'indice e poi attaccò quella del medio.
Finalmente disse, senza guardarmi: "Quindicimila lire non posso prestartele... ma posso indicarti la maniera di guadagnare cinquecento lire al giorno e anche mille, senza fatica."
Lo guardai, confesso, quasi con speranza: "E come?"
Lui aprì il cassetto della scrivania, ne cavò un ritaglio di giornale e me lo porse dicendo: "Leggi qui."
Lo presi e lessi:
Da cinquecento a mille al giorno guadagnerete senza fatica, a domicilio, fabbricando oggetto artistico ricorrenza anno santo. Inviare cinquecento lire casella postale ecc. ecc.
Per un momento rimasi a bocca aperta. Bisogna sapere che quell'annunzio lo conoscevo già: si trattava di certi furboni di provincia che sfruttavano la credulità dei poveretti.
Mandavate cinquecento lire e ricevevate in cambio un modellino di carta con i buchi da ripassare all'inchiostro di Cina, sulle cartoline postali. Veniva fuori il profilo di San Pietro. Poi bisognava piazzare le cartoline, e loro dicevano che, data la grande affluenza dei pellegrini, se ne potevano vendere facilmente da cinquanta a cento al giorno, a cinquanta lire l'una.
Gli restituii il ritaglio osservando: "Ti credevo un amico."
Lui adesso si mangiava l'unghia dell'anulare. Rispose senza alzare gli occhi: "E lo sono..."
"Ciao, Egisto..."
"Ciao, Gigi."
Da via di Parione andai a prendere l'autobus in corso Vittorio e mi recai in via dei Quattro Santi Coronati. Lì stava l'altro amico sul quale avevo contato per il prestito: Attilio.
Era il terzo e l'ultimo perché gli altri del gruppo erano poveretti che, anche se l'avessero voluto, non avrebbero potuto prestarmi un centesimo. Io avevo calcolato bene, come potete vedere: Mario possedeva il bar ben avviato, Egisto trafficava non so quanto con il suo negozio di mobili usati, e quest'Attilio, poi, addirittura, saccheggiava con un garage, affittando macchine e facendo riparazioni.
Anche con lui ero, si può dire, fratello: perfino gli avevo tenuto a battesimo la bambina. Lo trovai disteso sotto una macchina, sul marciapiede, la testa e il petto sotto e le gambe fuori.
Lo chiamai: "Attilio", ma questa volta la mia voce non aveva più alcun tremito. Lui armeggiò ancora un momento e poi venne fuori pian piano, asciugandosi la faccia tutta sporca di olio di motore con la manica della tuta.
Era un uomo tarchiato, con una faccia fosca, color del pane crudo, gli occhi piccoli, la fronte bassa, e una vecchia cicatrice sul sopracciglio destro.
Disse subito: "Guarda, Gigi che se è per una macchina, niente da fare... le ho tutte fuori e la giardiniera è in riparazione."
Risposi: "Non si tratta di una macchina... sono venuto per chiederti un favore: prestami venticinquemila lire."
Mi guardò accigliato, e poi disse: "Venticinquemila lire... te le do subito... aspetta;"
e io rimasi sbalordito perché ormai non ci avevo più sperato.
Andò lentamente alla giubba appesa a un chiodo dentro il garage, ne trasse il portafogli e poi tornò verso di me, domandando: "Le vuoi in biglietti da mille oppure in biglietti da cinquemila?"
"Come ti fa più comodo; non importa."
Mi guardava fisso, con una faccia che pareva gonfia di non capivo che minaccia.
Insistette: "O forse le vuoi in parte in biglietti da cento?..."
"Grazie, in biglietti da mille va bene." "Ma forse", disse come preso ad un tratto da un sospetto. "te ne servono trentamila... se ti servono, dillo pure, non aver paura."
"Beh, hai indovinato, facciamo trentamila... è proprio la somma che mi serve." "Para la mano."
Tesi la mano.
Allora lui fece un passo indietro e disse con una voce truce: "Ma di' la verità, ci hai creduto, povero cocco, che il denaro che fatico tanto a guadagnare, io debba spenderlo per uno sfaccendato come te... ci hai creduto eh? Ma ti sei sbagliato."
"Ma io..."
"Ma tu sei scemo... manco cento lire... lavora, datti da fare invece di passare il tempo al caffè..."
"Potevi dirmelo subito", incominciai inferocito, "non si fa così..."
"E ora vattene", disse lui, "vattene subito... pussa via."
Non potei più tenermi e dissi: "Carogna."
"Eh, che hai detto?" gridò lui afferrando un paletto di ferro, "ridillo un po'." Insomma, dovetti scappare, se no mi menava.
Tornai a casa, quel mattino, che mi sembrava di essere invecchiato di dieci anni. Alla mamma che dalla cucina mi domandò:
"Beh, il denaro te l'hanno prestato i tuoi amici?",
risposi: "Non li ho trovati."
Ma, a tavola, vedendomi avvilito, lei disse: "Confessa la verità: non hanno voluto prestarteli... per fortuna ci hai tua madre... eccoli i denari;"
e si cavò dalla tasca tre biglietti da diecimila, mostrandomeli.
Le domandai come avesse fatto, e lei rispose che l'amico del povero è il Monte di Pietà; intendendo con questo che aveva impegnato qualche cosa per procurarmi quei soldi. S'era, infatti, impegnati gli ori; e, tutt'oggi, non ha ancora potuto spegnarli.
Basta, passai quel mese a Santa Marinella. Andavo in barca, la mattina, al sole, e, qualche volta, chinandomi a guardare sott'acqua a tutti i pesci grandi e piccoli che ci nuotavano, mi domandavo se, almeno tra i pesci, ci fosse l'amicizia.
Tra gli uomini no, sebbene la parola l'abbiano inventata loro.
fINE.
Una fine un po’ amara diciamo. Siete riusciti a seguire il racconto? Vi è piaciuto?
Dunque, cosa succede in questa storia? La riassumo brevemente in modo semplice e chiaro per essere sicura abbiate seguito la trama dall’inizio alla fine.
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