# 82 le otto montagne

Benvenuto o benvenuta su Italiando Storie, il podcast di storytelling in lingua italiana per arricchire il tuo italiano e la tua mente.   

Sono Silvia e sono qui per raccontarvi delle storie in italiano lento per imparare con piacere.

Qui si parla di tutto: di racconti, di storie personali, di cultura e molto altro. Trovate la trascrizione di questo episodio al sito www.italiandolearnitalianwithsilvia.com. 


📝Nel pdf relativo all’episodio di oggi ci sono molte immagini ed esempi che vi aiutano a seguire meglio la storia e le spiegazioni delle parole.

Ciao a tutti! Come state? Come va la vita?

Ho una domanda per voi!

Qual è la prima cosa che vi viene in mente quando dico la parola montagna? ⛰️

Quali sono le prime parole che appaiono nella vostra mente quando sentite la parola ‘montagna’?

Per me, è sempre stata la parola ‘pace’.


Quando sono in montagna, mi sento in pace, mi sento a casa.

Ebbene sì, sono una montanara. Non abito in montagna ma sono da sempre una grande appassionata.

Purtroppo negli ultimi tempi non ci sto andando spesso e, onestamente, ne sento la mancanza.


Sarà per questo motivo che ho deciso di dedicare l’episodio di oggi a un libro che ha come sfondo e se vogliamo anche come protagonista, la montagna. Eccolo qui: ‘le otto montagne’ di Paolo Cognetti.

Il libro ‘Le otto montagne’ di Paolo Cognetti

Lo avete letto? Questo libro ha vinto il premio Strega nel 2017. Il premio Strega è un premio letterario italiano molto importante.


C’è anche un film meraviglioso tratto da questo libro che indovinate come si chiama...’Le 8 montagne’. Credo che il film sia assolutamente all’altezza del libro, cosa che succede raramente.

Forse è merito dei due attori protagonisti che sono Luca Marinelli e Alessandro Borghi che sono due talenti nati.

Una recensione relativa a questo film diceva: “un film che ti fa sentire l’aria nei polmoni e l’amore nel cuore”. Beh...non ho altro da raggiungere. Recensione perfetta: mi vengono le lacrime agli occhi solo pensando un secondo a quel film. Mi raccomando: guardatelo!



Quindi, se amate la montagna questo è l’episodio giusto per voi.

Già nelle primissime pagine del libro ci sono parole che ci trasportano immediatamente in montagna:

il sentiero, la vetta, la cima, il torrente, il nevaio, gli scarponi, il rifugio, la pendenza, la giacca a vento...

dolomites italy




Inoltre, vengono citati anche alcuni luoghi di montagna, come le Dolomiti, le meravigliose Dolomiti, che sono dei gruppi montuosi delle Alpi orientali.

Viene nominato un posto che io adoro e vi consiglio assolutamente di visitare: che sono le Tre cime di Lavaredo. Si chiamano così perché sono tre vette molto vicine tra loro, che sembrano quindi formare un piccolo gruppo "a parte" rispetto alle altre montagne circostanti, è un posto incantevole. Esiste anche una leggenda su questo posto che magari un giorno vi racconto.

tre cime di lavaredo italy


Questo è un episodio destinato principalmente agli studenti di livello avanzato, forse lo avete capito dalla velocità con cui parlo oggi, quindi come in tutti i video di livello avanzato non troverete i sottotitoli sul video di youtube, se non quelli automatici.

MA se siete studenti di un altro livello, nessun problema, restate con me!

Potete comunque usare questo video come ascolto passivo mentre fate altro per abituarvi al ritmo della lingua e chissà, magari riuscirete comunque a seguire a grandi linee la storia.

Ecco cosa faremo oggi, come si struttura l’episodio di oggi:

  • Leggerò il racconto, tutto di fila, senza interruzioni (ci vorranno massimo massimo venti minuti ).

  • Dopo vi spiegherò in parole più semplici che cosa succede nella storia per essere sicuri che abbiate capito cosa succede

  • Successivamente, ci sarà un approfondimento su alcune parole ed espressioni usate nel testo. Questa parte sarà la parte più spontanea e improvvisata.

  • E infine, se rimane del tempo, vi lascerò qualche mia opinione e riflessione


Sarà un video piuttosto lungo, quindi...cominciamo subito!

Anche perché qui non siamo decisamente in montagna e fa un caldo terribile.

Cominciamo!



le otto montagne

Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna.

Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia.

Saliva senza dosare le forze, sempre in gara con qualcuno o qualcosa, e dove il sentiero gli pareva lungo tagliava per la linea di massima pendenza.

Con lui era vietato fermarsi, vietato lamentarsi per la fame o la fatica o il freddo, ma si poteva cantare una bella canzone, specie sotto il temporale o nella nebbia fitta. E lanciare ululati buttandosi giù per i nevai.

Mia madre, che l’aveva conosciuto da ragazzo, diceva che lui non aspettava nessuno nemmeno allora, tutto preso a inseguire chiunque vedesse piú in alto: perciò occorreva aver buona gamba per rendersi desiderabili ai suoi occhi, e ridendo lasciava intendere di averlo conquistato cosí.

Lei piú tardi alle corse cominciò a preferire sedersi nei prati, o immergere i piedi in un torrente, o riconoscere i nomi delle erbe e dei fiori.

Anche in vetta le piaceva soprattutto osservare le cime lontane, pensare a quelle della sua giovinezza e ricordare quando c’era stata e con chi, mentre mio padre a quel punto veniva invaso da una specie di delusione, e voleva soltanto tornarsene a casa.

Credo fossero reazioni opposte alla stessa nostalgia.

I miei erano emigrati in città verso i trent’anni, lasciando il Veneto contadino in cui mia madre era nata, e mio padre era cresciuto da orfano di guerra.

Le loro prime montagne, il primo amore, erano state le Dolomiti.

Le nominavano a volte nei loro discorsi, quand’ero ancora troppo piccolo per seguire la conversazione, ma sentivo certe parole spiccare come suoni piú squillanti, con piú significato.

Il Catinaccio, il Sassolungo, le Tofane, la Marmolada.

Bastava uno di questi nomi pronunciati da mio padre per far brillare gli occhi a mia madre.

Erano i posti dove si erano innamorati, dopo un po’ lo capii anch’io: fu un prete a portarceli da ragazzi e fu lo stesso prete a sposarli, ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, davanti alla chiesetta che c’è lí, una mattina d’autunno.

Quel matrimonio di montagna era il mito fondativo della nostra famiglia.

Osteggiato dai genitori di mia madre per motivi che non conoscevo, celebrato tra quattro amici, con le giacche a vento come abiti nuziali e un letto al rifugio Auronzo per la prima notte da marito e moglie. La neve brillava già sulle cenge della Cima Grande.

Era un sabato di ottobre del 1972, la fine della stagione alpinistica per quello e molti anni a venire: il giorno dopo caricarono in macchina gli scarponi di cuoio, i pantaloni alla zuava, la gravidanza di lei e il contratto di assunzione di lui, e se ne andarono a Milano.

La calma non era una virtú che mio padre tenesse in considerazione, ma in città gli sarebbe servita piú del fiato. A Milano il panorama c’era: negli anni Settanta abitavamo in un palazzo affacciato su un ampio viale di traffico, sotto il cui asfalto, dicevano, scorreva il fiume Olona.

È vero che nei giorni di pioggia la strada si allagava – e io immaginavo il fiume là sotto ruggire al buio, gonfiarsi fino a esondare dai tombini – ma era l’altro fiume, quello fatto di auto, furgoni, motorini, camion, autobus, ambulanze, a essere sempre in piena.

Stavamo in alto, al settimo piano: le due file di edifici gemelli da cui la strada era arginata amplificavano il frastuono.

Certe notti mio padre non ne poteva piú, si alzava dal letto, spalancava la finestra come se volesse insultare la città, intimarle il silenzio, o rovesciarle addosso della pece bollente; stava lí un minuto a guardare di sotto, poi si infilava la giacca e usciva a camminare.

Da quei vetri vedevamo molto cielo. Bianco uniforme, indifferente alle stagioni, solcato solo dal volo degli uccelli.

Mia madre si ostinava a coltivare fiori su un balconcino annerito dal fumo e ammuffito da piogge secolari.

In balcone curava le sue piantine e intanto mi raccontava dei vigneti d’agosto, nella campagna in cui era cresciuta, o delle foglie di tabacco appese alle pertiche negli essiccatoi, o degli asparagi che per restare teneri e bianchi dovevano esser colti prima che spuntassero, perciò serviva un talento speciale a vederli ancora sotto terra.

Ora quell’occhio le era utile in tutt’altro modo.

Aveva fatto l’infermiera, in Veneto, ma a Milano ottenne un posto da assistente sanitaria al quartiere degli Olmi, nella periferia occidentale della città, tra le case popolari.

Era una qualifica appena creata, cosí come il consultorio familiare in cui operava, con l’idea di aiutare le donne durante la gravidanza e poi seguire il neonato fino a un anno di vita: era il lavoro di mia madre, e le piaceva. Soltanto che, dove l’avevano mandata a farlo, assomigliava piú che altro a una missione.

Di olmi da quelle parti ce n’erano ben pochi: tutta la toponomastica del quartiere, con le sue vie degli Ontani, degli Abeti, dei Larici, delle Betulle, suonava beffarda tra i casermoni a dodici piani, infestati da mali di ogni tipo.

Tra i compiti di mia madre c’era quello di andare a controllare l’ambiente in cui il bambino cresceva, ed erano visite che poi la lasciavano scossa per giorni.

Nei casi piú gravi doveva fare denuncia al tribunale dei minori. Le costava fatica arrivare a tanto, oltre che una certa dose di insulti e minacce, eppure non dubitava che fosse la decisione giusta.

Non era l’unica a crederci: alle assistenti sociali, alle educatrici, alle maestre la legava un profondo spirito di corpo, come un senso di responsabilità femminile e collettivo verso quei bambini.

Mio padre invece era sempre stato un solitario. Faceva il chimico in una fabbrica di diecimila operai, perennemente agitata da scioperi e licenziamenti, e qualunque cosa succedesse là dentro la sera ne tornava carico di rabbia.

A cena fissava il telegiornale in silenzio, impugnando le posate a mezz’aria, come se si aspettasse da un momento all’altro lo scoppio di un’altra guerra mondiale, e imprecava tra sé alla notizia di ogni morto ammazzato, ogni crisi di governo, ogni aumento dei prezzi del petrolio, ogni bomba dai mandanti incerti.

Coi pochi colleghi che invitava a casa discuteva quasi solo di politica, e finiva sempre per litigare.

Faceva l’anticomunista coi comunisti, il radicale coi cattolici, il libero pensatore con chiunque pretendesse di inquadrarlo in una chiesa, in una sigla di partito; ma quelli non erano tempi per sottrarsi alle coscrizioni, e dopo un po’ i colleghi di mio padre smisero di venire a casa.

Lui invece continuò ad andare in fabbrica come se dovesse calarsi in trincea ogni mattina.

E a non dormire la notte, a stringere le cose con troppa forza, a usare tappi per le orecchie e pastiglie per il mal di testa, a sbottare in violenti attacchi d’ira: allora entrava in azione mia madre, che tra i doveri di coppia si era presa anche quello di ammansirlo, attutire i colpi nella rissa tra mio padre e il mondo.



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# 81 bella ciao